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Birmania: stupri su donne Rohingya metodici, come arma di guerra


Lo stupro come arma di guerra, le efferate uccisioni di genitori, figli e fratelli proprio durante le violenze sessuali, il terrore di fronte ai soldati che in alcuni casi paralizza e toglie anche la voce e le lacrime. La denuncia di decine di donne musulmane di etnia Rohingya sopravvissute alle violenze dei militari e fuggite dalla Birmania in Bangladesh è stata raccolta dalla Associated Press nei campi profughi. Le vittime hanno tra i 13 e i 35 anni, sul corpo portano i segni delle torture subite, in braccio hanno i bimbi che da quegli stupri sono nati.

L'agenzia Ap precisa che gli atroci racconti delle donne e delle ragazzine sono stati ascoltati separatamente, in diversi campi approntati per gli sfollati Rohingya oltre il confine tra la Birmania e il Bangladesh. Ogni storia è diversa ed è avvenuta in villaggi diversi di cui ormai resta ben poco, ma tutte si somigliano nell'evidenziare la violenza di chi ha il potere, di chi agisce in gruppo e ha le armi e la garanzia dell'impunità.

In Birmania le autorità militari hanno sempre negato che i soldati si siano abbandonati a violenze gratuite contro i civili inermi, ma nelle zone dei villaggi Rohingya da mesi è impossibile accedere, sia per le organizzazioni umanitarie internazionali sia per gli inviati dei media di tutto il mondo.

Il racconto dell'orrore fatto dalla Ap comincia da R., una bambina di 13 anni: le hanno ucciso a coltellate il padre, l'hanno strappata ai fratellini più piccoli, in dieci dopo averla legata a un albero l'hanno stuprata finchè non ha perso i sensi. R. si è ritrovata in Bangladesh, salvata dai fratelli più grandi e soccorsa da un medico che le ha dato un contraccettivo. Ma non dorme, fatica a mangiare, ha incubi continui sui fratellini che le hanno strappato e che teme siano stati uccisi.

Poi c'è F, che l'incubo l'ha vissuto due volte a distanza di pochi mesi. In giugno i soldati erano sette, hanno sparato e sgozzato il marito, rubato le poche cose di valore che c'erano in casa. Dopo averla stuprata a turno, le hanno dato fuoco. L'hanno salvata i vicini ma in settembre cinque soldati sono tornati: di nuovo massacrata di botte e violentata, lasciata per morta, ora in Bangladesh aspetta un bimbo. Ed è decisa ad amarlo. Comunque.

Altre storie parlano di K., che il marito non ha soccorso perchè era stata violentata da non musulmani (i soldati birmani sono buddisti); di R, che a piedi nudi e con la schiena trafitta da varie coltellate per quattro giorni si è trascinata nella foresta e solo quando ha visto il fiume ha capito che si sarebbe salvata; di A. che era un ammasso di sangue e dolore ma, dice, 'Allah mi ha salvato'; di M. che era all'ottavo mese di gravidanza e che dopo gli stupri è stata presa a calci in pancia finchè non ha abortito. I loro racconti si chiudono tutti con una domanda: "Potremo mai ritrovare un po' di pace?".


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